Per scelta dei temi delle sue opere e metodo di lavoro, Rosario Genovese può essere a buon diritto considerato ‘artista originale’ titolo inflazionato, del resto, svalutato e ormai, per sé privo di connotazioni di valore. Presuppone una fastidiosa propensione gigionesca, una quantità e qualità di personalità superiore al consentito, insana e provinciale volontà di (limitarsi a) essere questo e essere così, alto tasso di suscettibilità: tutte cose che non si addicono a tempi in cui l’identità in tutte gli ambiti, gradazioni e accezioni possibili sembra costituire un limite o una colpa. Intanto, fiorisce il culto della spontaneità, così spontaneo esso stesso perché trae l’intero sistema della sua dottrina dalla passione da cui nasce, epifenomeno del mito dell’originalità che mimeticamente (direbbe Girard) prospera col ‘pensiero selvaggio’ o rinselvatichito in cui è azzerato il retaggio di un umanesimo che osava pronunciare il proprio nome ‘io’: mentre l’altro era l’altro, prossimo o remoto: ma stella fissa, non emanazione e complemento dell’unico o prefigurazione dell’inferno di cui eleggerlo emissario. “La presenza di un’eco è il segno fondamentale di una buona acustica”, scriveva Brodskij. E se la musica piace, non ci sarà motivo di discriminare fra le varie risonanze, né fra sorgente e riflesso sonoro. In modo analogo, la storia, recente o meno, sfuma nella vita del singolo; la tradizione, più o meno lontana, si confonde alla memoria personale. Su questa continuità progettuale e strutturale, Rosario Genovese fissa termini e linguaggio del suo lavoro: fatto di attenta ricognizione di dati e fenomeni, di determinazione di un ordine razionale, matematicamente formulabile, la cui chiave è il canone di Policleto, la sezione aurea, nesso e misura di tutte le cose, esergo di ogni suo lavoro. Lavoro che è di scienziato, oltre che di artista (e lasciamo andare ciò che di risaputo può dirci l’etimologia sulla techne rispetto a pratiche mitizzate rimettendole all’estro, all’improvvisazione, al capriccio della divina manìa o di manie più profane).
Come la mitologia proiettata sulle stelle che, probabilmente, l’hanno ispirata si riverbera e ritorce nel potere conferito agli astri di dettare o suggerire il destino che aspetta al varco i mortali, così, siderale e terrestre, mondo classico e ipertecnologico si implicano reciprocamente: e in Castore e Polluce non si sa se l’opera è inscritta negli astri o se questi sono catturati nelle rete dei rapporti simbolici e fisico-matematici (in questo caso, la distanza fra Aldebaran, il duo Arturo-Spica e Sirio espressa da una serie numerica 55, 89, 144 che trova corrispondenza d’ordine sequenziale nel sistema di Fibonacci) con cui legarli a sé, dal momento che l’opera riproduce la configurazione celeste nel giorno in cui la mostra è inaugurata. Cielo sceso in Terra, la Terra come tempio: una connotazione ‘sacrale’ che si aggiunge alle altre: e l’opera d’arte stessa come qualcosa che si aggiunge all’unità più vasta che è il mondo; o come mondo a sé stante (non ne bastasse uno a disposizione delle mutrie e recriminazioni per un senso di onnipotenza frustrato da una realtà che non corrisponde ai nostri desideri e non incontra il nostro gradimento); o qualcosa che è in grado di evocare un mondo o di dare un senso al mondo. O tutte queste cose insieme. Per aspera ad astra, Genovese aveva cominciato scoprendo i mondi alla portata del suo obiettivo pittorico puntando lo sguardo ad altezza di numero civico: qui, una vegetazione di fili elettrici, viscere per responsi aruspicini su un livello di realtà affidata a tali connettivi ovvero orbite con i loro satelliti lampade e contatori in posizione geostazionaria.
Nei muri di Genovese sembra sedimentare la memoria senza, tuttavia, concedere chance alla nostalgia piuttosto, la spettrografia di tensioni che innervano e in cui carburano ossessioni ambientali e personali, in cui incrostano temperie atmosferiche e congiunture storiche, lebbra di emarginazione e tabe di polveri sottili. E mentre la città cambia pelle la demografia non soffre di reticenza e parla chiaro, più di quanto al politicamente corretto piaccia più velocemente di quanto immaginasse Baudelaire nei versi sulla città che cambia più in fretta, hélas!, que le coeur d’un mortel (senza cuore si fa prima); e mentre il mondo muore senza nemmeno aspettare che ci pensi l’entropia, lo sguardo va già oltre, ma sempre svolgendo il filo della stessa trama. L’intreccio e i materiali sono gli stessi, nel caso della vita dietro i muri di una strada come di un pianeta senza vita o di una galassia sperduta con una catena di aminoacidi nel cuore o lungo uno dei bracci delle sue spirali legno, corda, strofinacci, terre; catrame, vetroresina, alluminio anodizzato. Chi abita con qualche comfort in una nicchia di questa contrada della galassia e culla della vita riconoscerà la docile fibra delle nebulose casa, dolce casa dell’Essere o suo eremo. Stesso tessuto, identico ordito stesura di un destino per cui c’è un tempo, una misura e un tempo. Tranne che nessuna Apocalisse è annunciata, qui, se non quella che conosciamo bene vivendoci in mezzo, la fine di tutte le cose occupa molto tempo e richiede attenzione quanto discrezione. Pittura e scultura coesistono come cornice scenografica al cui interno il fruitore si muove, ‘interprete’ che abita lo spazio in cui simbolo, mito, mappa astrale si intrecciano per essere attivate dall’agente-’attore’ di una vicenda cosmica da cui è assente il dramma, se non altro perché Genovese sembra evocare spazi, prima che dimensioni. Alle alte quote da cui osservare l’acaro così come Castore e Polluce, è più facile credere all’eternità che al presente (e provate a coniugare questa incredulità al futuro: moltiplicare l’istante per se stesso non conduce se non a una fede che nessun profeta certifica): dell’eternità è più facile formarsi un’idea, mentre il presente non si lascia afferrare, malgrado le esortazioni a non lasciarselo sfuggire Sant’Agostino l’ha detto a chiare lettere; è stato Goethe, invece, a piagnucolarci su come se l’istante fosse una perdita del cui importo si sentiva sicuro. Così, se la visione eccede il punto di vista di un’antropologia verso un orizzonte cosmologico, non c’è da dubitare che lo sguardo cui Genovese la affida come a una luce che le fa da guida è totalmente umano.
Castore e Polluce (di Rocco Giudice)
Catania, marzo 2009
da “Rosario Genovese: nuovi testi critici“
No Responses